A Roma, ben lontani dal caos del centro ma avvolti nella calma dell’elegante quartiere Trieste, al civico 18 di Via Scirè si trova Etienne Bistrot. Qui a dirigere i lavori, tanto in cucina quanto in sala, c’è l’eclettico Stefano Intraligi: ingegnere di formazione, chef per passione e dal 2018 anche patron del suo ristorante.
Sebbene varcando l’ingresso di Etienne Bistrot, non si noteranno tratti particolari che lo differenziano da un ristorante “classico”, sarà però sufficiente aprire il menu per rendersi conto che in questo posto un pranzo o una cena sono vere e proprie esperienze, in cui il gusto è solo uno dei sensi coinvolti. Scegliendo Etienne si sceglie, nello stesso tempo, di abbandonarsi nelle mani dello chef Intraligi lasciandosi guidare attraverso i suoi percorsi di degustazione. I menu cambiano ogni due mesi e, insieme all’imprescindibile stagionalità, seguono fondamentalmente l’estro e le emozioni di Intraligi. “All’inizio, mi riferisco ai primi tempi dall’apertura di Etienne – racconta Stefano Intraligi – in verità avevo anche lasciato l’impostazione tipica del ristorante, dunque si poteva scegliere un percorso tra primi, secondi… ma ho subito capito che non era la strada da percorre, almeno non la mia”.
L’esperienza all’Etienne Bistrot sollecita per tutta la sua durata le corde dell’attesa, della sorpresa inaspettata, del piatto sconosciuto che non si vede l’ora di scoprire e assaggiare. E sarà allora stupore davanti al pane di cristallo, maionese vegana al cocco e germogli di ravanelli rosa. Intraligi con questo piatto, bellissimo e minimalista, ha voluto ricreare la sensazione di mordere la tazzina di porcellana, proprio come faceva il Cappellaio nel Paese delle Meraviglie. Ma lo chef ama giocare, e anche con una buona dose d’irriverenza, con i mostri sacri della tradizione romana, come la gricia che qua diventa farcitura di perfetti palloncini di pasta fresca all’uovo, con pere e lime. Ci si emoziona, fino ai brividi, con la rosa di rapa rossa marinata alla sambuca su crema di formaggio e mizuna corallo che arriva al tavolo insieme ad un paio di cuffie collegate ad iPod dal quale parte, Goodbye England’s Rose, la struggente canzone di Elton Jhon poi riadattata nel 1997 in onore della scomparsa di Lady Diana. E dopo la pelle d’oca, ci si abbandona totalmente, abbassando tutte le sovrastrutture e gustando un piatto senza posate, senza mani ma solo con la lingua… leccandolo letteralmente; l’Asso di cuori, una rivisitazione dell’Arrabbiata. Chiusura finale affidata alla tradizione, anch’essa però cede il fianco a qualche lieve stravolgimento, come per la cassata che viene composta direttamente davanti all’ospite su un foglio trasparente come se fosse la tela di un quadro.
A colorarla però saranno la crema alla ricotta, i canditi fatti a mano, il crumble di mandorle e la neve di mandarino. Il menu, come dicevamo prima, è stagionale e si presenta sempre attraverso percorsi degustazione al buio da 4, 6 e 10 portate che cambiano ogni 2 mesi in base alla disponibilità dell’orto.
Una carta ben strutturata con circa 400 etichette racconta fedelmente la cura e la passione che Stefano Intraligi mette tanto in cucina quanto nella scelta dei vini, anch’essa di sua pertinenza.