ARCHEOLOGIA: nuove importanti scoperte relative alla “Pompei d’Oriente”
A separarle sono oltre 6 mila chilometri, più una manciata di millenni. Eppure, laggiù, tra le sabbie del deserto di Lut e le alture del Baluchistan, in Iran, l’impressione è di trovarsi davanti a un’altra Pompei. La “Pompei d’Oriente“, come la chiamano gli archeologi, perché come nella città romana, anche qui tutto è rimasto immobile, “immortalato” in un’istantanea del tempo.
“Conservato non dalla lava, come accadde con l’eruzione del Vesuvio. Ma dalla sabbia del deserto salato di Lut, uno dei più inospitali della terra”. Lo racconta ad Ansa, Enrico Ascalone, direttore scientifico del Progetto archeologico multidisciplinare internazionale a Shahr-i Sokhta, avviato nel 2016 dal dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento che lo finanzia con il Ministero degli Affari Esteri ed enti privati, e che lavora fianco a fianco con i colleghi della spedizione archeologica diretta da Mansur Sajjadi per l’Iranian Center for Archaeological Research.
Nata intorno alla seconda metà del quarto millennio nell’area del Sistan, non lontano dai confini con Pakistan e Afghanistan, collassata intorno al 2300 a.C per cause ancora sconosciute e nella lista Unesco per il suo “valore universale“, Shahr-i Sokhta era un fiorente centro di commercio e agricoltura, culla di un melting pot tra le quattro grandi civiltà fluviali: Oxus, Indo, Tigri-Eufrate e Halil. La prima delle nuove scoperte riguarda la datazione del centro, che gli esami sul carbone anticipano di 300 anni. La seconda, centinaia di quelle che gli esperti chiamano “proto-tavolette”. “Siamo nell’età del bronzo iraniano – racconta Enrico Ascalone – e dimostrano l’inizio di un processo di urbanizzazione che non si è compiuto”.