Domenica 3 dicembre, alle ore 11, inaugurazione del progetto OPEN BOX4 MITO-MORFOSI, a Piazza Albina e a seguire nel Giardino di Sant’Alessio, con le installazioni di Lucrezia Testa Iannilli e Alberto Timossi.
Con OPENBOX4 MITO-MORFOSI, si giunge alla quarta edizione di un progetto espositivo, ideato da AdA Associazione Amici dell’Aventino ETS e promosso in co-organizzazione con il Municipio Roma I Centro. Obiettivo comune: la custodia e valorizzazione dei luoghi del colle. Si tratta di un progetto pilota incentrato sul dialogo tra la scultura contemporanea e i giardini dell’Aventino, che vuole dare la possibilità agli artisti di esporre le proprie opere in un contesto paesaggistico e storico unico.
“Siamo alla 4 edizione e sono davvero soddisfatta di aver avuto modo di continuare una pratica virtuosa iniziata dalla precedente giunta. Soprattutto perchè senza l’arte contemporanea, più vicina al nostro tempo, non saremmo in grado di essere connessi con il nostro passato, continua fonte d’ispirazione della creatività attuale. Ringrazio l’associazione Amici dell’Aventino per la passione e la perseveranza con cui portano avanti questo progetto che coinvolge il territorio e i suoi residenti“, spiega l’assessore alla Cultura del Municipio I Roma centro.
L’evento di quest’anno porta l’attenzione sul mito e sulla trasformazione, la metamorfosi.
Il mito e la metamorfosi: le installazioni
Per la sua natura appartata e selvatica, ai margini dell’acropoli su cui è sorta Roma, l’Aventino è da sempre luogo del Mito. A cominciare dal re Aventino, figlio di Ercole e di una sacerdotessa di nome Rhea, il “bell’Aventino con il capo coperto da una pelle di leone”, come lo ricorda Virgilio nell’Eneide, ucciso e sepolto sul colle a cui avrebbe poi dato il nome.
L’altura fu poi scelta da Remo per avvistare in cielo gli uccelli, da cui avrebbe voluto trarre gli auspici per la fondazione della sua Roma, e che furono invece l’inizio di un dissidio concluso nel fratricidio. La più terribile delle figure mitiche legate all’Aventino è Caco, che Dante ricorda nella Divina Commedia come un centauro. Era figlio di Vulcano e viveva nelle caverne che erodono la ripida scarpata del colle verso il Tevere: “Questi è Caco, che sotto il sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco”. Caco uccideva i pastori e faceva sparire con l’inganno i loro armenti, tirandoli nelle sue caverne per la coda, così che le loro orme sembrassero andare in direzione opposta. Quando rubò il bestiame di Ercole, l’eroe lo uccise. Con poche eccezioni, il mito affonda le sue radici nel sangue, nella sopraffazione, nella doppiezza dell’agire. Le storie leggendarie ambientate all’Aventino non fanno eccezione.
I sentimenti forti, la violenza di quei modelli che sono anche alla base delle Metamorfosi di Ovidio sono del tutto estranei alla trascrizione moderna delle iconografie antiche che propone Lucrezia Testa Iannilli. I suoi centauri che appaiono tra gli alberi di piazza Albina, a volte nella sintesi uomo-cavallo, altre scorporando la forma umana e quella equina, inducono alla calma contemplazione senza tempo dell’età dell’oro. Nelle immagini esposte nel giardino di Sant’Alessio sembra di percepire il proposito ovidiano nel primo verso del suo poema, la rappresentazione del “mutamento di corpi in altri nuovi”: il levriero che pensa con il muso appoggiato alla “sua” mano e quello con arti umani, la ragazza con l’occhio di civetta, a mostrare come le anatomie possano accostarsi e fondersi senza cesure in una sorta di possibile riallestimento del repertorio naturale.
Anche gli interventi di Alberto Timossi nei due giardini dell’Aventino possono essere letti come un caso di trasformazione, non figurata e perciò meno scoperta. I suoi materiali vengono dal repertorio dell’edilizia moderna, sono grandi tubi rossi piegati o spezzati, che diventano pezzi anatomici, come gigantesche vene affioranti, e possono mettere in evidenza un interno scabro, irregolare, di grandi carotidi. In questo caso la metamorfosi è quella che subisce l’ambiente, che trapela ancora all’Aventino in piccoli spazi nella sua primigenia forma agreste, a piazza Albina e nel giardino di Sant’Alessio, tutt’intorno lacerato dagli interventi dell’antropizzazione, violenti fino a esporre l’interno fuor di pelle.